giovedì 17 aprile 2014

La Notte del Castigo di Dio - seconda parte






La Notte del Castigo di Dio
Seconda parte


Ci volle un tempo lungo un’eternità prima che a Domineddio piacesse porre fine al finimondo! In tutto quel tempo masse enormi di pietre miste a terra e alberi sradicati si staccarono dai fianchi opposti della montagna, scontrandosi a valle in prossimità dou Ròch da Fië e sul versante opposto nella zona dei Piouņ e da lou Ròch dou Jermìņ, le frane, ‘l ruinè, ostruirono con una diga instabile il corso del Sangonetto.
In poco tempo l’invaso si riempì. La spinta possente fece esplodere l’instabile diga e rovinando a valle con violenza da l’Anvè al Ròtche di Mùri, l’acqua distrusse ogni cosa e spazzò lou mulìņ ‘d Gàbrie.   
Quando iniziò quell’inferno, Drijņ che viveva con la famiglia nella borgata più in basso dov’era ubicato l’altro mulino dell’Indiritto di Coazze, come era solito fare per costume antico allo scatenarsi degli uragani sulla montagna, prese a vigilare sulla crescita tumultuosa del Sangonetto. 
Tra i lampi da tregenda dell’uragano, Drijņ ad un tratto notò lo scemare del frastuono lugubre delle acque che fino a poco prima rovinavano a valle con violenza sempre maggiore e vedendo il progressivo diminuire della portata del torrente capì: in alto il corso dell’acqua doveva essere stato ostruito da una frana staccata dalla montagna.

Drijņ capì che non c’era tempo da perdere per quanto sarebbe potuto succedere. Raccolse le poche cose di casa e salì coi familiari aņ Grèisouņ, la borgata poco più in alto dove avrebbero trovato ospitalità e sicurezza per la notte.
Come raccontava ogni volta ricordando quegli accadimenti, Drijņ e la sua gente se ne andarono appena in tempo. Poco dopo infatti, una massa enorme d’acqua mista a sassi e fango rovinò con gran fragore nella valle trascinando via ogni cosa.
Quella notte il Sangonetto in piena divorò i prati e la strada. Insieme ai meccanismi metallici del mulino trascinò come un fuscello anche il grande masso squadrato che da galassie di tempo si trovava più in basso poco distante alla confluenza col Sangonetto di un altro corso d’acqua solitamente tranquillo, lou Rì ‘d Grèisouņ.
Tutto ciò avvenne tra il sabato e la domenica del 3 maggio del ’47: la Notte del Castigo di Dio. 

Come ad altri montanari di lassù, quella notte rimase a fuoco nella memoria di Angiolina Gioana vedova Giai Via, nata al Giué di Giaveno nella famiglia di Grèisouņ, che di anni allora ne aveva pochi.
Al mattino quando la furia si placò, la valle del Sangonetto pareva essersi trasformata in un grande letto del torrente. Quella notte la piena s’era portata via il ponte del piccolo borgo di Sangonetto alla confluenza delle strade per il vallone di Forno, Cervelli e Indiritto ed altri più in basso nella valle.
Anche Giaveno subì gravi danni e nelle borgate prossime al Sangone, come Dalmassi, i contadini si videro spazzare via in poche ore giornate e giornate della loro terra.
“Cento anni o cento mesi, l’acqua torna ai suoi paesi”.

Recitava così un vecchio proverbio tramandato in alta valle da generazione in generazione.
Con quel proverbio bene in mente, ad ogni stagione delle piogge, i montanari vivevano l’angoscia di quanto sarebbe potuto accadere ancora. Per questo durante i grandi temporali percorrevano prati e sentieri con la zappa e un sacco di iuta sulle spalle col quale ripararsi alla meglio, për curè ‘l nàpule, per curare i fossi e far sì che l’acqua potesse scendere a valle  senza troppi danni.  
Dopo l’alluvione, che spazzò la strada, le borgate dell’Indiritto di Coazze rimasero isolate e fu necessario improvvisare un sentiero percorribile dai montanari con gerle e viveri e che consentisse di condurre in basso alla borgata Sangonetto, vitelli e vacche vendute ai negozianti del fondovalle. 
Per i montanari di lassù ci vollero tre anni di fatiche e lavoro aggiuntivo nei dì di festa e nei periodi di morta nelle campagne per ripristinare alla meglio la carrozzabile. 

In quell’interminabile periodo, la famiglia del fornaio di ņ Grèisouņ rese inconsapevolmente un grande servizio ai montanari dell’Indiritto. Coi due asini acquistati dal padre, il più grande dei figli, allora adolescente, fece la spola da ņ Grèisouņ a Sangonetto lungo il sentiero nel letto del torrente, per portare carichi di farina ed altri alimenti. 
La Notte del Castigo di Dio segnò l’inizio del Grande Esodo che in pochi lustri spopolò l’alta valle. Ad accelerarlo contribuì non poco la cronica indifferenza dei palazzi per le condizioni di vita della gente della montagna, la quale, mentre ovunque il mondo cambiava continuava ad essere obbligata a spostarsi su sentieri e mulattiere come ai tempi lontanissimi in cui gli avi si erano insediati in quei luoghi.
A fermare la valanga delle famiglie verso Coazze, Giaveno, Volvera, Orbassano e nella laterale Valle della Dora, con la quale da sempre avvenivano scambi commerciali e non solo, servì a poco anche l’impegno di don Bruna, nuovo prevosto di Indiritto, per accelerare la costruzione della strada fino alla chiesa del Marone. 

A valle le sirene della vita di fabbrica suonavano note troppo allettanti: esse promettevano ogni mese una paga magra ma sicura ed era difficile trattenere la gente lassù a massacrarsi per molto meno.
Come in molte valli la catastrofe in pochi anni si compì. Solo poche famiglie che non si sentivano più di iniziare nuove vite in altri luoghi o ritenevano ingiusto abbandonare il frutto del sudore delle generazioni passate rimasero ancorate ai loro fazzoletti di terra e ai loro muri di pietra.  
A tentare un’inversione impossibile, ci provò ancora parecchi anni dopo don Gianni Gili, un giovane prete venuto dal piano all’Indiritto di Coazze.
Ma questa è storia più recente sulla quale qualcosa è già stato detto e molto rimane ancora da raccontare.

ENNIO BARONETTO

giovedì 3 aprile 2014

La Notte del castigo di Dio - prima parte





La Notte del Castigo di Dio


Scendendo a valle dalle sorgenti alle quote alte dove esso nasce, nel comune di Coazze, in Alta Val Sangone, il Sangonetto, lou Sangouņ ‘d l’Adrèch, cresce e s’ingrossa senza grandi affluenti per l’apporto di ruscelli e sorgenti che emergono qua e là dalle fenditure vuote della montagna.     
Un tempo i montanari di là, che per raggiungere case e poderi si spostavano tra i versanti di mezzogiorno e mezzanotte, nei periodi dell’anno in cui il torrente non era troppo impetuoso per lo scioglimento delle nevi in quota o per i violenti temporali estivi, lo attraversavano nei punti più prossimi di guado e solo nei casi in cui non era possibile ricorrevano a ponti improvvisati, allungando di molto il tragitto abituale.     
Prima che gli alberi tornassero a riconquistarsi gli spazi strappati in epoche passate dagli uomini all’ordine antico della natura, lassù dalla mulattiera che da la Bërghinìri porta a la  Dindlìri e prosegue per li Piouņ sulla destra orografica del Sangonetto, occhi ben disposti ad ammirare i grandi spazi, potevano godere dell’ampia visuale della valle. Di là potevano perdersi osservando da lou Priët fin giù al Ròtche di Mùri, in un alternarsi di massi di ogni dimensione levigati dall’erosione dei millenni e piccole anse di sabbia argentata depositata dalle piene lungo il letto del torrente. Pareva quasi che artisti giganti di epoche lontane avessero buttato per gioco un lungo nastro serpeggiante su li Piëņ ‘d Sangouņ: così era per la gente del luogo la distesa di prati dei Piani del Sangonetto.  
A metà percorso della mulattiera, una piccola costruzione di pietra, utilizzata dai margari delle case vicine per tenere in fresco il latte e la panna, testimoniava il passato antico di quelle borgate. Un tempo sul pavimento à lòse del piccolo casale, che ha resistito alle violenze della natura, veniva fatta scorrere l’acqua incanalata da una sorgente poco lontana: l’ideale per rilasciare frescura al locale e lavare i recipienti utilizzati nella lavorazione del latte.  
Allora non c’erano alberi tra le distese di prati sulle rive del Sangonetto. Su di esse fazzoletti di terra coltivati a grano segale e patate parevano messi là ad arte per rompere la quieta monotonia del grande tappeto verde che nei mesi estivi dominava la vallata.   
Non era facile tenere in ordine quel grande giardino perennemente in bilico tra il frutto delle umane fatiche e il sempre incombente caos della natura. Ogni anno occorreva ordinare la rete di piccoli canali, che nella stagione secca portavano l’acqua delle sorgenti nei prati riarsi e non mollare mai dopo i grandi temporali di risistemare massi e sabbia per regimare il corso del torrente ed evitare l’erosione delle sponde.            
Poco sopra l’abitato dou Priët, un piccolo ponte, al quale era stato dato il nome del borgo, costituiva da tempi immemori il passaggio naturale per i margari in cammino verso le grange dou Palëi, l‘Arp ‘d Dijavëņ e le borgate dell’Inverso: la Dindlìri, la Bërghinìri, Bësàs, Pitchèire, sëņ Dijan Antougni, Preservì e su fino aou Tchardijour.
Arroccato a una roccia poco distante dal ponticello a mezzogiorno, lou muliņ ‘d Gàbrie, il mulino di Gabriele, dal nome forse del proprietario che l’aveva costruito, era una piccola costruzione tirata su in tempi lontani per dare farina da pane ai montanari delle borgate.
La casa, dalle pareti esterne intonacate di bianco, era costituita da un porticato con due locali, uno dei quali ospitava le macine e i macchinari del mulino e l’altro fungeva da deposito per granaglie e farine.
Su un ripiano sotto il porticato antistante la costruzione, i montanari che arrivavano là, liberavano le loro spalle martoriate dalle gerle cariche di granaglie da macinare e tornavano a gravarsele di lì a poco con sacchi di crusca e farina da portar via.
Mentre con gesti lenti e antichi pescavano tabacco forte da la blàga, la tabacchiera e arrotolavano sigarette buone a far buttare dai polmoni litanie croniche di tosse, in quelle brevi e preziose pause di riposo essi vivevano momenti importanti di socialità conversando col mugnaio e altri montanari arrivati là dalle borgate vicine.                  
Pulsava di cristiani e animali la montagna in quegli anni e al mulino c’era molto lavoro. Per non far mancare farina da pane nelle case spruzzate come macchie di neve sui crinali in primavera, al mugnaio, à lou mulinèi, toccava spesso lavorare anche la notte.   
Oltre il cortile erboso del mulino, in estate ingentilito qua e là dai colori vivaci dei rosai curati dalle donne, si snodava la mulattiera per le borgate alte, al di là della quale un piccolo orto si interponeva a un fazzoletto di prato che finiva dritto nel torrente sottostante.      
Come lou muliņ ‘d Gàbrie, anche gli altri prati intorno ai Piani del Sangonetto furono spazzati come fuscelli dalla piena nella Notte del Castigo di Dio di oltre mezzo secolo fa.
Quella sera una voragine immensa si aprì dal cielo e come un diluvio universale, che nessuno ricordava, si rovesciò da essa un mare d’acqua sulla valle.     
Nelle case della montagna non dormì nessuno quella notte. Nelle stalle al lume basso delle candele furono in molti a pregare il Padreterno, la Madonna e tutti i Santi affinché insieme ponessero fine a quel finimondo da far paura e in una stalla dou piëņ Ahtèiva, sul versante a mezzogiorno, anche Martché, che a recitar Rosari si annoiava a morte, invitò la Dijenia a iniziarne uno…

Fine Prima Parte