La Notte del Castigo di Dio
Seconda parte
Ci volle
un tempo lungo un’eternità prima che a Domineddio piacesse porre fine al
finimondo! In tutto quel tempo masse enormi di pietre miste a terra e alberi
sradicati si staccarono dai fianchi opposti della montagna, scontrandosi a
valle in prossimità dou Ròch da Fië e
sul versante opposto nella zona dei Piouņ e da lou Ròch dou
Jermìņ, le
frane, ‘l ruinè, ostruirono con una
diga instabile il corso del Sangonetto.
In poco
tempo l’invaso si riempì. La spinta possente fece esplodere l’instabile diga e rovinando
a valle con violenza da l’Anvè al Ròtche
di Mùri, l’acqua distrusse ogni cosa e spazzò lou mulìņ ‘d Gàbrie.
Quando
iniziò quell’inferno, Drijņ che viveva con la famiglia nella borgata più in basso
dov’era ubicato l’altro mulino dell’Indiritto di Coazze, come era solito fare
per costume antico allo scatenarsi degli uragani sulla montagna, prese a vigilare sulla crescita
tumultuosa del Sangonetto.
Tra i
lampi da tregenda dell’uragano, Drijņ ad un tratto notò lo scemare del frastuono lugubre delle
acque che fino a poco prima rovinavano a valle con violenza sempre maggiore e
vedendo il progressivo diminuire della portata del torrente capì: in alto il
corso dell’acqua doveva essere stato ostruito da una frana staccata dalla
montagna.
Drijņ capì
che non c’era tempo da perdere per quanto sarebbe potuto succedere. Raccolse le
poche cose di casa e salì coi familiari aņ Grèisouņ, la borgata poco più in alto dove avrebbero trovato
ospitalità e sicurezza per la notte.
Come
raccontava ogni volta ricordando quegli accadimenti, Drijņ e la
sua gente se ne andarono appena in tempo. Poco dopo infatti, una massa enorme
d’acqua mista a sassi e fango rovinò con gran fragore nella valle trascinando
via ogni cosa.
Quella
notte il Sangonetto in piena divorò i prati e la strada. Insieme ai meccanismi
metallici del mulino trascinò come un fuscello anche il grande masso squadrato
che da galassie di tempo si trovava più in basso poco distante alla confluenza
col Sangonetto di un altro corso d’acqua solitamente tranquillo, lou Rì ‘d Grèisouņ.
Tutto
ciò avvenne tra il sabato e la domenica del 3 maggio del ’47: la Notte del
Castigo di Dio.
Come ad
altri montanari di lassù, quella notte rimase a fuoco nella memoria di
Angiolina Gioana vedova Giai Via, nata al Giué di Giaveno nella famiglia di Grèisouņ, che di anni allora ne aveva pochi.
Al
mattino quando la furia si placò, la valle del Sangonetto pareva essersi
trasformata in un grande letto del torrente. Quella notte la piena s’era
portata via il ponte del piccolo borgo di Sangonetto alla confluenza delle
strade per il vallone di Forno, Cervelli e Indiritto ed altri più in basso
nella valle.
Anche
Giaveno subì gravi danni e nelle borgate prossime al Sangone, come Dalmassi, i
contadini si videro spazzare via in poche ore giornate e giornate della loro
terra.
“Cento anni o cento mesi, l’acqua torna ai suoi paesi”.
Con quel
proverbio bene in mente, ad ogni stagione delle piogge, i montanari vivevano
l’angoscia di quanto sarebbe potuto accadere ancora. Per questo durante i
grandi temporali percorrevano prati e sentieri con la zappa e un sacco di iuta
sulle spalle col quale ripararsi alla meglio, për curè ‘l nàpule, per
curare i fossi e far sì che l’acqua potesse scendere a valle senza troppi danni.
Dopo
l’alluvione, che spazzò la strada, le borgate dell’Indiritto di Coazze rimasero
isolate e fu necessario improvvisare un sentiero percorribile dai montanari con
gerle e viveri e che consentisse di condurre in basso alla borgata Sangonetto,
vitelli e vacche vendute ai negozianti del fondovalle.
Per i
montanari di lassù ci vollero tre anni di fatiche e lavoro aggiuntivo nei dì di
festa e nei periodi di morta nelle campagne per ripristinare alla meglio la carrozzabile.
In
quell’interminabile periodo, la famiglia del fornaio di sëņ Grèisouņ rese
inconsapevolmente un grande servizio ai montanari dell’Indiritto. Coi due asini
acquistati dal padre, il più grande dei figli, allora adolescente, fece la
spola da sëņ Grèisouņ a Sangonetto lungo il sentiero nel letto del torrente,
per portare carichi di farina ed altri alimenti.
La Notte
del Castigo di Dio segnò l’inizio del Grande Esodo che in pochi lustri spopolò
l’alta valle. Ad accelerarlo contribuì non poco la cronica indifferenza dei
palazzi per le condizioni di vita della gente della montagna, la quale, mentre
ovunque il mondo cambiava continuava ad essere obbligata a spostarsi su
sentieri e mulattiere come ai tempi lontanissimi in cui gli avi si erano
insediati in quei luoghi.
A
fermare la valanga delle famiglie verso Coazze, Giaveno, Volvera, Orbassano e
nella laterale Valle della Dora, con la quale da sempre avvenivano scambi
commerciali e non solo, servì a poco anche l’impegno di don Bruna, nuovo
prevosto di Indiritto, per accelerare la costruzione della strada fino alla
chiesa del Marone.
A valle
le sirene della vita di fabbrica suonavano note troppo allettanti: esse
promettevano ogni mese una paga magra ma sicura ed era difficile trattenere la
gente lassù a massacrarsi per molto meno.
Come in
molte valli la catastrofe in pochi anni si compì. Solo poche famiglie che non
si sentivano più di iniziare nuove vite in altri luoghi o ritenevano ingiusto
abbandonare il frutto del sudore delle generazioni passate rimasero ancorate ai
loro fazzoletti di terra e ai loro muri di pietra.
A
tentare un’inversione impossibile, ci provò ancora parecchi anni dopo don
Gianni Gili, un giovane prete venuto dal piano all’Indiritto di Coazze.
Ma
questa è storia più recente sulla quale qualcosa è già stato detto e molto
rimane ancora da raccontare.
ENNIO BARONETTO