La Notte del Castigo di Dio
Scendendo
a valle dalle sorgenti alle quote
alte dove esso nasce, nel comune di Coazze, in Alta Val Sangone, il Sangonetto,
lou Sangouņ ‘d l’Adrèch, cresce e
s’ingrossa senza grandi affluenti per l’apporto di ruscelli e sorgenti che
emergono qua e là dalle fenditure vuote della montagna.
Un tempo
i montanari di là, che per raggiungere case e poderi si spostavano tra i
versanti di mezzogiorno e mezzanotte, nei periodi dell’anno in cui il torrente
non era troppo impetuoso per lo scioglimento delle nevi in quota o per i
violenti temporali estivi, lo attraversavano nei punti più prossimi di guado e
solo nei casi in cui non era possibile ricorrevano a ponti improvvisati,
allungando di molto il tragitto abituale.
Prima
che gli alberi tornassero a riconquistarsi gli spazi strappati in epoche
passate dagli uomini all’ordine antico della natura, lassù dalla mulattiera che
da la Bërghinìri porta a la
Dindlìri e prosegue per li
Piouņ sulla
destra orografica del Sangonetto, occhi ben disposti ad ammirare i grandi spazi,
potevano godere dell’ampia visuale della valle. Di là potevano perdersi
osservando da lou Priët fin giù al Ròtche di Mùri, in un alternarsi di massi di ogni dimensione levigati
dall’erosione dei millenni e piccole anse di sabbia argentata depositata dalle
piene lungo il letto del torrente. Pareva quasi che artisti giganti di epoche
lontane avessero buttato per gioco un lungo nastro serpeggiante su li Piëņ ‘d Sangouņ: così era per la gente del luogo la distesa di prati dei
Piani del Sangonetto.
A metà
percorso della mulattiera, una piccola costruzione di pietra, utilizzata dai
margari delle case vicine per tenere in fresco il latte e la panna, testimoniava
il passato antico di quelle borgate. Un tempo sul pavimento à lòse
del piccolo casale, che ha resistito alle violenze della natura, veniva fatta
scorrere l’acqua incanalata da una sorgente poco lontana: l’ideale per
rilasciare frescura al locale e lavare i recipienti utilizzati nella
lavorazione del latte.
Allora
non c’erano alberi tra le distese di prati sulle rive del Sangonetto. Su di
esse fazzoletti di terra coltivati a grano segale e patate parevano messi là ad
arte per rompere la quieta monotonia del grande tappeto verde che nei mesi
estivi dominava la vallata.
Non era
facile tenere in ordine quel grande giardino perennemente in bilico tra il
frutto delle umane fatiche e il sempre incombente caos della natura. Ogni anno
occorreva ordinare la rete di piccoli canali, che nella stagione secca
portavano l’acqua delle sorgenti nei prati riarsi e non mollare mai dopo i
grandi temporali di risistemare massi e sabbia per regimare il corso del
torrente ed evitare l’erosione delle sponde.
Poco
sopra l’abitato dou Priët, un piccolo
ponte, al quale era stato dato il nome del borgo, costituiva da tempi immemori
il passaggio naturale per i margari in cammino verso le grange dou Palëi, l‘Arp ‘d Dijavëņ e le
borgate dell’Inverso: la Dindlìri, la Bërghinìri,
Bësàs, Pitchèire, sëņ Dijan Antougni, Preservì e su
fino aou Tchardijour.
Arroccato
a una roccia poco distante dal ponticello a mezzogiorno, lou muliņ ‘d Gàbrie, il mulino di Gabriele, dal nome forse del proprietario
che l’aveva costruito, era una piccola costruzione tirata su in tempi lontani
per dare farina da pane ai montanari delle borgate.
La casa,
dalle pareti esterne intonacate di bianco, era costituita da un porticato con
due locali, uno dei quali ospitava le macine e i macchinari del mulino e
l’altro fungeva da deposito per granaglie e farine.
Su un
ripiano sotto il porticato antistante la costruzione, i montanari che
arrivavano là, liberavano le loro spalle martoriate dalle gerle cariche di
granaglie da macinare e tornavano a gravarsele di lì a poco con sacchi di
crusca e farina da portar via.
Mentre
con gesti lenti e antichi pescavano tabacco
forte da la blàga, la tabacchiera e arrotolavano sigarette buone a far buttare
dai polmoni litanie croniche di tosse, in quelle brevi e preziose pause di
riposo essi vivevano momenti importanti di socialità conversando col mugnaio e
altri montanari arrivati là dalle borgate vicine.
Pulsava
di cristiani e animali la montagna in quegli anni e al mulino c’era molto
lavoro. Per non far mancare farina da pane nelle case spruzzate come macchie di
neve sui crinali in primavera, al mugnaio,
à lou mulinèi, toccava spesso lavorare anche la notte.
Oltre il
cortile erboso del mulino, in estate ingentilito qua e là dai colori vivaci dei
rosai curati dalle donne, si snodava la mulattiera per le borgate alte, al di
là della quale un piccolo orto si interponeva a un fazzoletto di prato che
finiva dritto nel torrente sottostante.
Come lou muliņ ‘d Gàbrie, anche
gli altri prati intorno ai Piani del Sangonetto furono spazzati come fuscelli
dalla piena nella Notte del Castigo di Dio di oltre mezzo secolo fa.
Quella
sera una voragine immensa si aprì dal cielo e come un diluvio universale, che
nessuno ricordava, si rovesciò da essa un mare d’acqua sulla valle.
Nelle
case della montagna non dormì nessuno quella notte. Nelle stalle al lume basso
delle candele furono in molti a pregare il Padreterno, la Madonna e tutti i
Santi affinché insieme ponessero fine a quel finimondo da far paura e in una
stalla dou piëņ Ahtèiva, sul
versante a mezzogiorno, anche Martché,
che a recitar Rosari si annoiava a morte, invitò la Dijenia a iniziarne uno…
Fine Prima Parte
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